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Seneca - Tragedie - Oedipus - Scaena Viii

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Scaena VIII. Nuntius
Praedicta postquam fata et infandum genus
deprendit ac se scelere convictum Oedipus
damnavit ipse, regiam infestus petens
invisa propero tecta penetravit gradu,
qualis per arva Libycus insanit leo,
fulvam minaci fronte concutiens iubam;
vultus furore torvus atque oculi truces,
gemitus et altum murmur, et gelidus volat
sudor per artus, spumat et volvit minas
ac mersus alte magnus exundat dolor.
secum ipse saevus grande nescioquid parat
suisque fatis simile. 'quid poenas moror?'
ait 'hoc scelestum pectus aut ferro petat
aut fervido aliquis igne vel saxo domet.
quae tigris aut quae saeva visceribus meis
incurret ales? ipse tu scelerum capax,
sacer Cithaeron, vel feras in me tuis
emitte silvis, mitte vel rabidos canes--
nunc redde Agaven. anime, quid mortem times?
mors innocentem sola Fortunae eripit.'
Haec fatus aptat impiam capulo manum
ensemque ducit. 'itane? tam magnis breves
poenas sceleribus solvis atque uno omnia
pensabis ictu? moreris: hoc patri sat est;
quid deinde matri, quid male in lucem editis
gnatis, quid ipsi, quae tuum magna luit
scelus ruina, flebili patriae dabis?
solvendo non es: illa quae leges ratas
Natura in uno vertit Oedipoda, novos
commenta partus, supplicis eadem meis
novetur. iterum vivere atque iterum mori
liceat, renasci semper ut totiens nova
supplicia pendas -- utere ingenio, miser:
quod saepe fieri non potest fiat diu;
mors eligatur longa. quaeratur via
qua nec sepultis mixtus et vivis tamen
exemptus erres: morere, sed citra patrem.
cunctaris, anime? subitus en vultus gravat
profusus imber ac rigat fletu genas--
et flere satis est? hactenus fundent levem
oculi liquorem? sedibus pulsi suis
lacrimas sequantur: hi maritales statim
fodiantur oculi.' Dixit atque ira furit:
ardent minaces igne truculento genae
oculique vix se sedibus retinent suis;
violentus audax vultus, iratus ferox
iamiam eruentis; gemuit et dirum fremens
manus in ora torsit. at contra truces
oculi steterunt et suam intenti manum
ultro insecuntur, vulneri occurrunt suo.
scrutatur avidus manibus uncis lumina,
radice ab ima funditus vulsos simul
evolvit orbes; haeret in vacuo manus
et fixa penitus unguibus lacerat cavos
alte recessus luminum et inanes sinus
saevitque frustra plusque quam satis est furit.
tantum est periclum lucis? attollit caput
cavisque lustrans orbibus caeli plagas
noctem experitur. quidquid effossis male
dependet oculis rumpit, et victor deos
conclamat omnis: 'parcite en patriae, precor:
iam iusta feci, debitas poenas tuli;
inventa thalamis digna nox tandem meis.'
rigat ora foedus imber et lacerum caput
largum revulsis sanguinem venis vomit.


Chorus
Fatis agimur: cedite fatis;
non sollicitae possunt curae
mutare rati stamina fusi.
quidquid patimur mortale genus,
quidquid facimus venit ex alto,
servatque suae decreta colus
Lachesis dura revoluta manu.
omnia certo tramite vadunt
primusque dies dedit extremum:
non illa deo vertisse licet,
quae nexa suis currunt causis.
it cuique ratus prece non ulla
mobilis ordo: multis ipsum
metuisse nocet, multi ad fatum
venere suum dum fata timent.
Sonuere fores atque ipse suum
duce non ullo molitur iter
luminis orbus.

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[biancafarfalla] - [2015-12-24 16:13:42]

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