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Seneca - Epistulae Morales Ad Lucilium - Liber Xix - 116

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CXVI. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

[1] Utrum satius sit modicos habere adfectus an nullos saepe quaesitum est. Nostri illos expellunt, Peripatetici temperant. Ego non video quomodo salubris esse aut utilis possit ulla mediocritas morbi. Noli timere: nihil eorum quae tibi non vis negari eripio. Facilem me indulgentemque praebebo rebus ad quas tendis et quas aut necessarias vitae aut utiles aut iucundas putas: detraham vitium. Nam cum tibi cupere interdixero, velle permittam, ut eadem illa intrepidus facias, ut certiore consilio, ut voluptates ipsas magis sentias: quidni ad te magis perventurae sint si illis imperabis quam si servies? [2] 'Sed naturale est' inquis 'ut desiderio amici torquear: da ius lacrimis tam iuste cadentibus. Naturale est opinionibus hominum tangi et adversis contristari: quare mihi non permittas hunc tam honestum malae opinionis metum?' Nullum est vitium sine patrocinio; nulli non initium verecundum est et exorabile, sed ab hoc latius funditur. Non obtinebis ut desinat si incipere permiseris. [3] Inbecillus est primo omnis adfectus; deinde ipse se concitat et vires dum procedit parat: excluditur facilius quam expellitur. Quis negat omnis adfectus a quodam quasi naturali fluere principio? Curam nobis nostri natura mandavit, sed huic ubi nimium indulseris, vitium est. Voluptatem natura necessariis rebus admiscuit, non ut illam peteremus, sed ut ea sine quibus non possumus vivere gratiora nobis illius faceret accessio: suo veniat iure, luxuria est. Ergo intrantibus resistamus, quia facilius, ut dixi, non recipiuntur quam exeunt. [4] 'Aliquatenus' inquis 'dolere, aliquatenus timere permitte.' Sed illud 'aliquatenus' longe producitur nec ubi vis accipit finem. Sapienti non sollicite custodire se tutum est, et lacrimas suas et voluptates ubi volet sistet: nobis, quia non est regredi facile, optimum est omnino non progredi. [5] Eleganter mihi videtur Panaetius respondisse adulescentulo cuidam quaerenti an sapiens amaturus esset. 'De sapiente' inquit 'videbimus: mihi et tibi, qui adhuc a sapiente longe absumus, non est committendum ut incidamus in rem commotam, inpotentem, alteri emancupatam, vilem sibi. Sive enim nos respicit, humanitate eius inritamur, sive contempsit, superbia accendimur. Aeque facilitas amoris quam difficultas nocet: facilitate capimur, cum difficultate certamus. Itaque conscii nobis inbecillitatis nostrae quiescamus; nec vino infirmum animum committamus nec formae nec adulationi nec ullis rebus blande trahentibus.' [6] Quod Panaetius de amore quaerenti respondit, hoc ego de omnibus adfectibus dico: quantum possumus nos a lubrico recedamus; in sicco quoque parum fortiter stamus.

[7] Occurres hoc loco mihi illa publica contra Stoicos voce: 'nimis magna promittitis, nimis dura praecipitis. Nos homunciones sumus; omnia nobis negare non possumus. Dolebimus, sed parum; concupiscemus, sed temperate; irascemur, sed placabimur.' [8] Scis quare non possimus ista? quia nos posse non credimus. Immo mehercules aliud est in re: vitia nostra quia amamus defendimus et malumus excusare illa quam excutere. Satis natura homini dedit roboris si illo utamur, si vires nostras colligamus ac totas pro nobis, certe non contra nos concitemus. Nolle in causa est, non posse praetenditur. Vale.

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