Seneca - Epistulae Morales Ad Lucilium - Liber Xix - 111
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CXI. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Quid vocentur Latine sophismata quaesisti a me. Multi temptaverunt illis nomen inponere, nullum haesit; videlicet, quia res ipsa non recipiebatur a nobis nec in usu erat, nomini quoque repugnatum est. Aptissimum tamen videtur mihi quo Cicero usus est: 'cavillationes' vocat. [2] Quibus quisquis se tradidit quaestiunculas quidem vafras nectit, ceterum ad vitam nihil proficit: neque fortior fit neque temperantior neque elatior. At ille qui philosophiam in remedium suum exercuit ingens fit animo, plenus fiduciae, inexsuperabilis et maior adeunti. [3] Quod in magnis evenit montibus, quorum proceritas minus apparet longe intuentibus: cum accesseris, tunc manifestum fit quam in arduo summa sint. Talis est, mi Lucili, verus et rebus, non artificiis philosophus. In edito stat, admirabilis, celsus, magnitudinis verae; non exsurgit in plantas nec summis ambulat digitis eorum more qui mendacio staturam adiuvant longioresque quam sunt videri volunt; contentus est magnitudine sua. [4] Quidni contentus sit eo usque crevisse quo manus fortuna non porrigit? Ergo et supra humana est et par sibi in omni statu rerum, sive secundo cursu vita procedit, sive fluctuatur et <it> per adversa ac difficilia: hanc constantiam cavillationes istae de quibus paulo ante loquebar praestare non possunt. Ludit istis animus, non proficit, et philosophiam a fastigio suo deducit in planum. [5] Nec te prohibuerim aliquando ista agere, sed tunc cum voles nihil agere. Hoc tamen habent in se pessimum: dulcedinem quandam sui faciunt et animum specie subtilitatis inductum tenent ac morantur, cum tanta rerum moles vocet, cum vix tota vita sufficiat ut hoc unum discas, vitam contemnere. 'Quid regere?' inquis. Secundum opus est; nam nemo illam bene rexit nisi qui contempserat. Vale.
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