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Seneca - De Otio - 6

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1. 'Sed refert' inquis 'an ad illam voluptatis causa accesseris, nihil aliud ex illa petens quam adsiduam contemplationem sine exitu; est enim dulcis et habet inlecebras suas.' Adversus hoc tibi respondeo: aeque refert quo animo civilem agas vitam, an semper inquietus sis nec tibi umquam sumas ullum tempus quo ab humanis ad divina respicias.
2. Quomodo res adpetere sine ullo virtutum amore et sine cultu ingeni ac nudas edere operas minime probabile est (misceri enim ista inter se et conseri debent), sic inperfectum ac languidum bonum est in otium sine actu proiecta virtus, numquam id quod didicit ostendens.
3. Quis negat illam debere profectus suos in opere temptare, nec tantum quid faciendum sit cogitare sed etiam aliquando manum exercere et ea quae meditata est ad verum perducere? Quodsi per ipsum sapientem non est mora, si non actor deest sed agenda desunt, ecquid illi secum esse permittes?
4. Quo animo ad otium sapiens secedit? ut sciat se tum quoque ea acturum per quae posteris prosit. Nos certe sumus qui dicimus et Zenonem et Chrysippum maiora egisse quam si duxissent exercitus, gessissent honores, leges tulissent; quas non uni civitati, sed toti humano generi tulerunt. Quid est ergo quare tale otium non conveniat viro bono, per quod futura saecula ordinet nec apud paucos contionetur sed apud omnis omnium gentium homines, quique sunt quique erunt?
5. Ad summam, quaero an ex praeceptis suis vixerint Cleanthes et Chrysippus et Zenon. <Non> dubie respondebis sic illos vixisse quemadmodum dixerant esse vivendum: atqui nemo illorum rem publicam administravit. 'Non fuit' inquis 'illis aut ea fortuna aut ea dignitas quae admitti ad publicarum rerum tractationem solet.' Sed idem nihilominus non segnem egere vitam: invenerunt quemadmodum plus quies ipsorum hominibus prodesset quam aliorum discursus et sudor. Ergo nihilominus hi multum egisse visi sunt, quamvis nihil publice agerent.

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