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Seneca - De Consolatione Ad Marciam - 25

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1. Proinde non est quod ad sepulcrum fili tui curras; pessima eius et ipsi molestissima istic iacent, ossa cineresque, non magis illius partes quam vestes aliaque tegimenta corporum. Integer ille nihilque in terris relinquens sui fugit et totus excessit; paulumque supra nos commoratus, dum expurgatur et inhaerentia vitia situmque omnem mortalis aevi excutit, deinde ad excelsa sublatus inter felices currit animas. Excepit illum coetus sacer, Scipiones Catonesque, interque contemptores vitae et veneficio liberos parens tuus, Marcia.
2. Ille nepotem suum -- quamquam illic omnibus omne cognatum est -- applicat sibi nova luce gaudentem et vicinorum siderum meatus docet, nec ex coniectura sed omnium ex vero peritus in arcana naturae libens ducit; utque ignotarum urbium monstrator hospiti gratus est, ita sciscitanti caelestium causas domesticus interpres. Et in profunda terrarum permittere aciem iubet; iuvat enim ex alto relicta respicere.
3. Sic itaque te, Marcia, gere, tamquam sub oculis patris filique posita, non illorum, quos noveras, sed tanto excelsiorum et in summo locatorum. Erubesce quicquam humile aut volgare cogitare et mutatos in melius tuos flere! Aeternarum rerum per libera et vasta spatia dimissi sunt; non illos interfusa maria discludunt nec altitudo montium aut inviae valles aut incertarum vada Syrtium: omnia ibi plana et ex facili mobiles et expediti et in vicem pervii sunt intermixtique sideribus.

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