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Seneca - De Consolatione Ad Marciam - 23

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1. Praeter hoc quod omne futurum incertum est et ad deteriora certius, facillimum ad superos iter est animis cito ab humana conversatione dimissis; minimum enim faecis, ponderis traxerunt. Ante quam obdurescerent et altius terrena conciperent liberati leviores ad originem suam revolant et facilius quicquid est illud obsoleti inlitique eluunt.
2. Nec umquam magis ingenis cara in corpore mora est; exire atque erumpere gestiunt, aegre has angustias ferunt, vagi per omne, sublimes et ex alto adsueti humana despicere. Inde est quod Platon clamat: sapientis animum totum in mortem prominere, hoc velle, hoc meditari, hac semper cupidine ferri in exteriora tendentem.
3. Quid? tu, Marcia, cum videres senilem in iuvene prudentiam, victorem omnium voluptatium animum, emendatum, carentem vitio, divitias sine avaritia, honores sine ambitione, voluptates sine luxuria adpetentem, diu tibi putabas illum sospitem posse contingere? Quicquid ad summum pervenit, ab exitu prope est. Eripit se aufertque ex oculis perfecta virtus, nec ultimum tempus expectant quae in primo maturuerunt.
4. Ignis quo clarior fulsit, citius extinguitur; vivacior est, qui cum lenta ac difficili materia commissus fumoque demersus ex sordido lucet; eadem enim detinet causa, quae maligne alit. Sic ingenia quo inlustriora, breviora sunt; nam ubi incremento locus non est, vicinus occasus est.
5. Fabianus ait, id quod nostri quoque parentes videre, puerum Romae fuisse statura ingentis viri; sed hic cito decessit, et moriturum brevi nemo prudens non ante dixit; non poterat enim ad illam aetatem pervenire, quam praeceperat. Ita est: indicium imminentis exitii nimia maturitas est; adpetit finis ubi incrementa consumpta sunt.

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