Seneca - De Consolatione Ad Marciam - 4
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1. Nec te ad fortiora ducam praecepta, ut inhumano ferre humana iubeam modo, ut ipso funebri die oculos matris exsiccem. Ad arbitrium tecum veniam: hoc inter nos quaeretur, utrum magnus dolor esse debeat an perpetuus.
2. Non dubito quin Iuliae Augustae, quam familiariter coluisti, magis tibi placeat exemplum: illa te ad suum consilium volat. Illa in primo fervore, cum maxime inpatientes ferocesque sunt miseriae, consolandam se Areo, philosopho viri sui, praebuit et multum eam rem profuisse sibi confessa est, plus quam populum Romanum, quem nolebat tristem tristitia sua facere, plus quam Augustum, qui subducto altero adminiculo titubabat nec luctu suorum inclinandus erat, plus quam Tiberium filium, cuius pietas efficiebat ut in illo acerbo et defleto gentibus funere nihil sibi nisi numerum deesse sentiret.
3. Hic, ut opinor, aditus illi fuit, hoc principium apud feminam opinionis suae custodem diligentissimam: 'usque in hunc diem, Iulia, quantum quidem ego sciam, adsiduus viri tui comes, cui non tantum quae in publicum emittuntur nota, sed omnes sunt secretiores animorum vestrorum motus, dedisti operam ne quid esset quod in te quisquam reprenderet; nec id in maioribus modo observasti, sed in minimis, ne quid faceres cui famam, liberrimam principum iudicem, velles ignoscere.
4. Nec quicquam pulchrius existimo quam in summo fastigio conlocatos multarum rerum veniam dare, nullius petere; servandus itaque tibi in hac quoque re tuus mos est, ne quid committas quod minus aliterve factum velis.
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