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LI. Post inventa conclusio est, qua credo usuros veteres illos fuisse, si iam nota atque usurpata res esset; qua inventa omnis usos magnos oratores videmus. [170] Sed habet nomen invidiam, cum in oratione iudiciali et forensi numerus [Latine, Graece rhythmos] inesse dicitur. Nimis enim insidiarum ad capiendas auris adhiberi videtur, si etiam in dicendo numeri ab oratore quaeruntur. Hoc freti isti et ipsi infracta et amputata loquuntur et eos vituperant qui apta et finita pronuntiant; si inanibus verbis levibusque sententiis, iure; sin probae res, lecta verba, quid est cur claudere aut insistere orationem malint quam cum sententia pariter excurrere? Hic enim invidiosus numerus nihil adfert aliud nisi ut sit apte verbis comprehensa sententia; quod fit etiam ab antiquis, sed plerumque casu saepe natura; et quae valde laudantur apud illos, ea fere quia sunt conclusa laudantur. [171] Et apud Graecos quidem iam anni prope quadringenti sunt cum hoc probatur; nos nuper agnovimus. Ergo Ennio licuit vetera contemnenti dicere:
versibus, quos olim Fauni vatesque canebant,
mihi de antiquis eodem modo non licebit? Praesertim cum dicturus non sim ante hunc, ut ille, nec quae sequuntur: Nos ausi reserare;—legi enim audivique non nullos, quorum prope modum absolute concluderetur oratio. Quod qui non possunt, non est eis satis non contemni, laudari etiam volunt. Ego autem illos ipsos laudo idque merito, quorum se isti imitatores esse dicunt, etsi in eis aliquid desidero, hos vero minime, qui nihil illorum nisi vitium sequuntur, cum a bonis absint longissime.
[172] Quod si auris tam inhumanas tamque agrestis habent, ne doctissimorum quidem virorum eos movebit auctoritas? Omitto Isocratem discipulosque eius Ephorum et Naucratem, quamquam orationis faciendae et ornandae auctores locupletissimi summi ipsi oratores esse debebant. Sed quis omnium doctior, quis acutior, quis in rebus vel inveniendis vel iudicandis acrior Aristotele fuit? Quis porro Isocrati est adversatus infensius? Is igitur versum in oratione vetat esse, numerum iubet. Eius auditor Theodectes in primis, ut Aristoteles saepe significat, politus scriptor atque artifex hoc idem et sentit et praecipit; Theophrastus vero eisdem de rebus etiam accuratius. Quis ergo istos ferat, qui hos auctores non probent? Nisi omnino haec esse ab eis praecepta nesciunt. [173] Quod si ita est—nec vero aliter existimo—quid, ipsi suis sensibus non moventur? Nihilne eis inane videtur, nihil inconditum, nihil curtum, nihil claudicans, nihil redundans? In versu quidem theatra tota exclamant, si fuit una syllaba aut brevior aut longior; nec vero multitudo pedes novit nec ullos numeros tenet nec illud quod offendit aut curat aut in quo offendit intellegit; et tamen omnium longitudinum et brevitatum in sonis sicut acutarum graviumque vocum iudicium ipsa natura in auribus nostris conlocavit.
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[kono67] - [2009-01-22 22:53:42]